Un estratto da "Piccolo mondo moderno", che verrà letto alla maratona di lettura, dedicata ad Antonio Fogazzaro, durante il festival LIBRIAMO, l'ultimo week end di agosto, a Vicenza.
CAPITOLO PRIMO
Ab ovo.
I.
La vecchia marchesa Nene Scremin stava spolverando ella stessa, in abito di ricevimento e con un viso arcigno, il suo salotto. Strofinava col fazzoletto le spalliere delle sedie appoggiate alle pareti, gl’intagli del canapè e delle poltrone, i piani delle cantoniere, la campana della pendola. Alzava uno a uno i candelieri dorati dalla caminiera di marmo nero, alzava dal tavolo di marmo bianco, uno ad uno, i porta-fiori, i porta-ritratti, le bomboniere, i ninnoli accumulati da una serie favolosa di natalizi e di anniversari, strofinava il marmo, cancellava le piccole nuvolette di polvere, brontolando contro quel benedetto Federico che pretendeva di avere spolverato. Il povero Federico, mezzo storpio, mezzo sdentato, mezzo calvo, capitò in quel punto, nella sua blusa di fatica, a dirle che c’era il giardiniere vecchio, quello licenziato da due mesi, e che desiderava di parlarle.
“Ch’el speta!„ disse la marchesa. “E vu, benedeto, cossa feu che no ve vestì? No savì che xe marti? Che spolverar feu, vu? No’ vedì che stala che xe qua?„
“Che stala?„ fece Federico, intontito. “Che stala? Cape, mi so che son sta qua do ore stamatina„.
“Ben, gavarì dormìo. Gài portà l’ovo alla Tonina?„
La Tonina era una vecchia cameriera inferma, mantenuta dagli Scremin per carità. Federico dichiarò di non sapere se a mezzogiorno le avessero portato il solito uovo, e in quel punto venne la cuoca a ripetere il messaggio del giardiniere licenziato. Ne seguì un battibecco fra i due servi, appunto per questa replica non richiesta, malgrado la presenza della padrona. Ma la marchesa, dominata da tetri presentimenti, voleva notizie dell’uovo e seppe dalla cuoca che l’uovo alla Tonina lo aveva portato la guattera e che la Tonina, sentendosi poco bene, non lo aveva preso. Questo fu il principio di un dramma. Cos’era accaduto dell’uovo? Silenzio. Possibile che qualcuno l’avesse mangiato? Che si fosse dimenticata la quaresima? Federico brontolò: “El sarà in cusina„. La marchesa intascò il suo fazzoletto sudicio, andò diritta in cucina. Cerca qua, cerca là, niente uovo. Andò alla finestra e chiamò il cocchiere che stava ripulendo finimenti nel cortile. Mentre colui saliva ella si affacciò alla buia scaletta di servizio per chiamar la guattera, vide qualcuno nell’ombra, lo credette il cocchiere e gli domandò bruscamente: “Gavìo tolto un ovo?„ “Mi, signora?„ rispose colui, timido. “Mi no so gnente de ovi„. Allora la marchesa lo giudicò un accattone, gli gittò un brusco “No ghe xe gnente!„ Quegli replicò ch’era il giardiniere vecchio. “Oh, ben, spetè„. E la vecchia dama ricominciò la sua caccia all’uovo.
Nessuno aveva preso l’uovo, nè la guattera, nè il cocchiere, nè la cameriera. La marchesa andò in cerca del fattore che di solito dopo mezzogiorno pigliava un caffè in cucina. “Galo visto un ovo?„ “Un ovo, signora?„ Il povero fattore, non potendo negare di aver veduto un uovo durante la sua carriera mortale e non osando affermarlo in quel momento, rimase a bocca aperta. Intanto i cinque domestici, quale sulla scala, quale in una stanza, quale in un corridoio, quale in cucina, brontolavano soliloqui alquanto scorretti e l’uovo scomparso empiva la casa di sè.
“Per un ovo!„ fremeva il cocchiere, seccatissimo di aver fatto tante scale per niente: “e i tien carozza e cavài sti fioi de cani!„ Proprio in quell momento la padrona lo chiamò da capo. Voleva sapere se avesse visto il padrone. Colui rispose di no, sgarbatamente. “Sarà in Duomo, il signor padrone„, disse la cameriera alle spalle della marchesa. “Sarà andato a far l’ora„. La vecchia signora sapeva che da qualche tempo suo marito, per certe coperte ambizioni politiche, non vestiva più la cotta di socio della confraternita del Duomo. Tacque, però. In quel momento un ragazzotto uscì dalla scuderia con una bracciata di fieno. “Dove va quel fien, ohe?„ gridò la vecchia, imperiosa. Stavolta il cocchiere rispose con affettata solennità, compiacendosi di farla tacere e di esprimere insieme un coperto disprezzo per qualcun altro: “Fien del paron giovine! Ordine del paron giovine!„
Federico, che stava abbottonandosi la livrea, masticò un altro soliloquio sulla clientela di straccioni che aveva il “paron giovine„, il genero dei padroni vecchi, che abitava un’ala del palazzo e teneva in scuderia un cavallo da sella. Anche i brumisti disperati venivano, adesso, a spremerlo! Anche fieno regalava! Federico diede al giardiniere, nella sua sapienza, il consiglio di andarsene e di ritornare verso le quattro quando veniva a casa il “paron giovine„. “Ancò, ciò, la parona la ga in testa un ovo e diman la gavarà in testa un galeto. Vien dal paron giovine. Adesso che i lo ga fato anca consiglier!„
L’arrivo delle prime visite interruppe le indagini della marchesa mentre stavano per approdare a una scoperta impensata e imbarazzante. Ella era in relazione con tutta la città. Aveva nel suo taccuino una nota di novantasette visite a fare in dicembre e in aprile, residuo delle centoquarantasei cui era giunta, per compiacere al marito, nella sua giovinezza e forse anche negli anni faticosi e tormentosi in cui aveva dovuto mettere in mostra la figliuola. I suoi ricevimenti del martedì erano però di solito molto scarsi perchè le amiche intime e le amiche umili evitavano il giorno solenne. Invece quel martedì, natalizio della padrona di casa, un po’ per questo, un po’ per caso, venne molta gente. Le amiche umili capitarono presto per non abbattersi nelle amiche grandi. Erano tre o quattro vecchiette dignitosamente composte nel decoro delle loro maniere cerimoniose e della loro seta, nella coscienza della loro modesta civiltà. Il tu che davano alla marchesa Nene aveva una segreta, commovente anima di soggezione e d’intima compiacenza. La marchesa se la intendeva con loro meglio che con le altre, anche perchè in fatto di pratiche religiose, di magri, stretti magri e digiuni avevano tutte come lei una coscienza di ermellino, così candida che persino la più minuta goccia di latte avrebbe potuto macchiarla. Le vecchie signore si eran sempre tanto guardate, nei loro colloqui, dal menomo accenno a cose politiche, a elezioni, a Consigli comunali come da ogni altro discorso che non riguardasse il tempo, la salute, gl’interessi, le vicende familiari di qualche persona, tutt’al più l’ingegno e i polmoni di un predicatore; avevano così regolarmente ammutolito e con tale identico sussiego udendo altrui parlar di faccende pubbliche e di faccende sporche, che adesso non sapevano come felicitar la suocera per la elezione del genero a consigliere comunale, avvenuta due giorni prima. Dopo aver lamentato, tutte a una voce, la fortunatissima recrudescenza di freddo che alimentava i languenti colloqui dei salotti cittadini, la più ardita arrischiò una parolina: “El ga avudo una bela sodisfazion, to genero, i me ga dito. L’è tanto bon, po, poareto„.
Le altre vecchiette, preso animo, gracidarono con le loro fesse voci untuose: “Eh quel che xe, po! — Tanto bon, tuti no fa che dire. — Se consolemo tanto„.
La marchesa Nene fece un viso grave e disse loro: “Conforti magri„. Allora venne dalle amiche qualche triste, misteriosa parola di compianto e di speranza che cadde non raccolta. Il discorso ritornò alle virtù del genero e le buone signore, invece di parlarne alla suocera, ne parlarono, per un raffinamento di adulazione, tra loro. Una di esse aveva udito il parroco del Duomo levare a cielo la pietà del signor Maroni; un’altra riferì che la sua domestica s’incontrava ogni mattina col signor Maroni alla prima messa. La più timida non fece che correggere sottovoce le altre quando nominavano il lodato, ma per quanto mormorasse “Maironi, Maironi„ esse continuavano col loro Maroni; scusabili perchè anche la marchesa, usa rimpastar nel dialetto nomi e cognomi, diceva Maroni tre volte su quattro. La conversazione passò quindi al matrimonio di un garzone della merciaiuola dove tutte quelle signore si provvedevano di aghi e di refe.